The True Cost: il vero prezzo della moda low-cost

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Migliaia di operai, gente comune e bambini di tutto il mondo pagano con la propria vita e la loro salute i nostri abiti a basso costo.


È la dura e cruda verità di alcuni paesi come Bangladesh, Cambogia, India; dove migliaia di operai muoiono ogni anno per le cattive condizioni nel quale sono costretti a lavorare, dove gli agricoltori si suicidano a causa del sistema economico, dove centinaia di bambini nascono affetti da malformazioni, dove c'è un'altissima concentrazione di persone ammalate di cancro, dove il 24 Aprile 2013 l'edificio commerciale costituito da otto piani, il Rana Plaza, crollò causando oltre 1,000 vite spezzate e oltre 2,500 feriti fra cui molti di loro rimasti con handicap fisici.


Era da parecchio tempo che volevo vedere questo documentario, tuttavia rimandavo perché ero consapevole del fatto che è tosto, pur conoscendo già abbastanza bene l'argomento trattato, dovevo sentirmi pronta per vedere con i miei occhi determinate immagini.
Sono una persona molto sensibile e sopratutto empatica, tutto mi entra dentro e mi turba nel bene e nel male, nonostante la mia formazione in campo sociale, non sono mai riuscita nella mia vita a vedere con distacco tutto ciò che mi circonda.


Qualche giorno fa ricorreva l'anniversario della strage del Rana Plaza, sui social ho notato una massiccia ondata di 'memorial post', si è dato il via anche alla settimana della "Fashion Revolution" ossia la settimana della moda rivoluzionaria, nata appunto per sensibilizzare la gente, dopo questa tragedia, cercando di far cambiare le dinamiche di acquisto della popolazione globale; ogni giorno su Instagram si pubblica un contenuto differente, che pone ai lettori quotidianamente delle domande, fra cui: "Dove è stato fatto il mio maglione?" - "Dove sono stati realizzati i miei monili?" - "Dove è stato realizzato il mio abito da sposa?" e così via. Il secondo giorno, di questa settimana dedicata alla rivoluzione della moda, è stato riservato proprio al ricordo della tragedia avvenuta a Dacca, bisognava pubblicare una foto di un indumento indossato alla rovescia dimodoché fosse visibile il marchio e porre la fatidica domanda al brand in questione: "Chi ha fatto i miei abiti?"


Anche io ho scattato la mia foto, con un maglioncino nero in cotone a rete, acquistato nel lontano 2009 quando nella mia città (Catania), fu inaugurato il primo H&M e io fui presa dall'irrefrenabile voglia di acquistare qualcosa dell'azienda svedese che fino a quel momento avevo ammirato solo in tv, recandomi al negozio toccai con mano i tessuti, non erano eccelsi (sono cresciuta in mezzo alle stoffe, mio nonno era un commerciante di stoffe pregiate, non ho avuto la fortuna di conoscerlo ma lasciò in eredità il mestiere a mia mamma, che ha lavorato per oltre 30 anni in questo campo e con mia nonna che era un'abile sarta, quindi ho una certa conoscenza dei tessuti) ma dato il prezzo ovviamente non potevo aspettarmi di meglio, il problema principale non fu la qualità dei tessuti bensì le taglie, all'epoca indossavo una 36 italiana, la taglia più piccola presente da H&M era la XS che dovrebbe corrispondere a una 38 italiana ma in realtà corrisponde a una taglia 40 italiana, per cui presa dallo sconforto mi recai nel reparto bimbi (dove ero già abituata ad acquistare), e finalmente trovai due capi adatti a me (perché a tutti i costi dovevo avere qualcosa del nuovo negozio), una camicia giornaliera e il maglioncino di cui vi parlavo prima, che tuttora possiedo, sono vecchiotti li indosso per le escursioni, ma ancora resistono.


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Questo lungo preambolo, per ricondurvi al discorso iniziale, non ero stata pronta fino a ieri a vedere quel documentario, poi ho scattato quella foto da pubblicare nella mia galleria Instagram, scegliendo quel maglione, uno dei pochi indumenti di marchi low-cost rimasti nel mio armadio, ero intenta a regolare la luminosità della mia foto, quando tornai con la mente a quel giorno in cui comprai quel maglione e fu in quel momento che fui completamente travolta dall'angoscia, era il 2009 e quel maglione con molta probabilità è stato realizzato da uno di quei poveri operai morti nella strage del Rana Plaza, perché anche il marchio svedese era tra i 29 brands che fabbricavano al Rana Plaza; mi commuovo mentre scrivo queste parole, perché questo pensiero mi fa tanto male, pensare che la persona che ha realizzato il mio maglione oggi probabilmente non c'è più a causa di un sistema malato, mi tormenta.

Colta da questa profonda tristezza, ho deciso che era arrivato il momento, che sarebbe stato più produttivo guardare quel documentario piuttosto che pubblicare la foto di quell'indumento su Instagram.
Così in meno di 15 minuti, ho effettuato la registrazione su Netflix e ho dedicato due ore della mia giornata alla visione di The True Cost.

Sapevo già tutto, ma non avevo mai voluto guardare le immagini di quel disastro, non avevo mai voluto vedere i bambini nati con handicap fisici dovuti all'inquinamento, non volevo vedere la gente malata, non volevo vedere...

L'intento di questa mia pubblicazione non è recensire il documentario, non c'è nulla da recensire, bisogna solo vedere e comprendere, il mio scopo è quello di sensibilizzare quella piccola fetta di gente che mi legge, ricordando loro che il mare è fatto di gocce e per fare il mare c'è bisogno di ogni singola goccia.


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Foto di The New York Times

Io 9 anni fa quando acquistai quei due capi non sapevo cosa ci fosse dietro la realizzazione di essi, anzi chi c'era e a quali condizioni si trovava lì a realizzare con le proprie mani i miei due capi, ma oggi so e ho il dovere di prenderne atto!

Sono trascorsi quasi 6 anni da quando ho smesso di fare acquisti compulsivi, da quando ho compreso che il nostro sistema economico consumista ci ha reso fantocci manovrati dai loro fili, si perché, come si evince anche da The True Cost, il messaggio che riceviamo da tutti i marchi di moda e non, è univoco: "Acquista il nostro prodotto, è la strada per la felicità!" - Non a caso tutti i cartelli pubblicitari o gli slogan televisivi, hanno testimonial di bell'aspetto, corpo perfetto, viso perfetto, capelli lucenti (seppur tutti figli di un'altra faccia della "realtà", quella di Photoshop), abiti sempre alla moda, auto di lusso, amici intorno, fidanzati e famiglie impeccabili. Si, il messaggio è chiaro: "Acquista e tutto questo sarà tuo!"


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Anche io fino a 10 anni fa, compravo, compravo e compravo ancora, era un modo per sentirmi felice, tornavo a casa piena di pacchetti e pacchettini e mi sentivo soddisfatta, poi il 50% di quegli acquisti rimaneva nell'armadio con l'etichetta attaccata, ma questo era solo un dettaglio, io continuavo ad acquistare scarpe, vestiti e borse.
Non mi chiedevo a quale costo reale avevo quell'indumento, non prendevo coscienza del disastro ambientale che alimentavo, non sapevo le condizioni in cui erano costretti a lavorare gli operai, non ero a conoscenza di nulla.
Condivido con voi anche questo mio pezzo di vita, perché non voglio assolutamente ergermi sul piedistallo dell'eticità, che in passato non ho avuto, ma anzi voglio essere testimonianza del cambiamento.
Sbagliare è umano, prendere consapevolezza e cambiare è doveroso!

Avrei ancora tante cose da dire, tuttavia preferisco astenermi, per non cadere in congetture e perché voglio lasciarvi un punto di domanda fondamentale:

Vi siete mai chiesti qual è l'impatto ambientale e sociale provocato dal mondo della moda?


Come disse il buon Manzoni: "Ai posteri l'ardua sentenza!"
P.S.: nel frattempo vi consiglio, se come me in questi anni non lo avete visto, di vedere The True Cost e di tenere a mente quello che vi ho scritto sopra, riguardo le gocce del mare.



Foto di Noctula.pt

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